Piangere i morti con urla e lamenti rivolti al cielo è, da sempre, stato compito delle donne.
Erano loro a tenere alta la cultura del pianto durante i funerali.
Ammantate di veli neri, queste figure femminili erano in prima linea nelle cerimonie funebri pregando, tra stridi e lagnanze, in onore del defunto per compiangerlo e decantarne virtù. Spesso, però, lo facevano per denaro. Erano conosciute come prefiche, ed erano delle vere e proprie professioniste del lutto.
Figure essenziali nelle commemorazioni funebri che, fino a pochi anni fa, vendevano ancora urla e lamenti in alcune zone del meridione.
Ma queste donne, dalla lacrima facile, facevano parte di un rituale, a volte studiato con lo stesso prete celebrante, che andava oltre la classica funzione sacra.
Lamenti e pianti gonfiati, diventavano loro stessi liturgia e rituale, tanto che una loro assenza poteva essere vista come malaugurio per i familiari rimasti in vita, perché non unti da quell’esorcizzazione femminile contro la paura e la morte.
E così loro, messe in fila, ai piedi della cassa del defunto, avevano il compito di renderne ancora più triste ed angosciante il rito funebre. Anche se la loro non era una vera e sincera angoscia, riuscivano comunque a dilagare nell’aria stridule percezioni liberatorie, salvifiche e redentrici.
Un rito antico
Questo singolare rito sembra essere originario di un’antica cultura indoeuropea, come confermano antichi scritti reperiti dall’accademico Angelo De Gubernatis. Lo studioso afferma che: «Appaiono pure le donne come le cantatrici dell’inno per la morte di un vecchio o d’un capo tribù».
Di loro c’è poi traccia nei poemi omerici, quando si trattava di riti funebri per salutare gli eroi. Lo scopo era sempre quello: capeggiare urla e disperazione durante gli estremi onori. D’altro canto il nome prefiche deriva proprio dal lemma latino praeficere, che significa “porre a capo”.
Queste singolari claque funerarie si tramandarono dalla Grecia a Roma.
Nella capitale vennero addirittura limitate alcune pratiche autolesionistiche. «Le prefiche romane andavano ancora più in là, solevano martoriarsi tanto che ne usciva il sangue».
A Milano, invece, questi riti al femminile vennero proibiti da San Carlo Borromeo. Ma il saper lagnarsi con maestria è stata un’abilità piuttosto richiesta nell’Italia meridionale addirittura fino agli anni ’70.
Da noi, le prefiche erano conosciute anche come reputatrici, lamentatrici, piangimorti o vociferatrici ed erano presenti in Puglia, Sardegna, in Basilicata e Campania.
Una professione retribuita
A favorirne la collocazione era una realtà sociale povera, miscelata a diffusa ignoranza ed arretratezza. Erano anche i tempi delle pestilenze e della miseria e infatti, le vociferatrici, erano per lo più contadine che dovevano guadagnarsi il pane o donne con a carico figli da sfamare.
Per questo esisteva anche una sorta di antagonismo locale: le lamentatrici più in gamba erano meglio retribuite e più alta era la ricompensa e più le urla salivano acute verso il cielo. Da qui l’esigenza di una continua ricerca nella perfezione del rito. Gesti e tradizioni erano tramandati di madre in figlia, da zia a nipote. Passaggi di rituali articolati e gesti rigorosi che venivano rimodellati per adeguarsi ai tempi e alle nuove richieste funerarie.
Quasi che l’importanza, la bontà e il valore attribuito alla persona mancata si giocasse tutto nel momento dell’estremo saluto. In funzione di quante lacrime erano versate, di quanti odi e lamenti. O, ancora, alla miglior mimica del cordoglio.
Le prefiche nel tempo
Anche lo scopo del lavoro delle prefiche si è modificato nel tempo. Nell’antica Grecia erano le famiglie ricche a chiamare a funerale queste donne per avere più lacrime, più urla ed più odi in quanto, i parenti non potevano esternare troppo il dolore per questioni di compostezza dettata dalle solennità di quel tempo, in quanto, per loro c’era solo il “dolor muto”.
Le vociferatrici italiane, invece, viste anche come esorciste di sventure, erano presenti per ogni ceto sociale e venivano chiamate quasi in prevalenza dalle famiglie povere per esigenze di voler scacciare la malasorte.
Ma oggi la commercializzazione del pianto e del lamento è praticamente scomparsa e la figura della prefica si è sbiadita tra le pieghe del tempo e delle moderne ritualità del dolore.
Non si sono persi, però, gli antichi lamenti. Uno in particolare recitava: «Non ho più niente da dirti, non ho più niente da farti, statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto». MG
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